L’estate non finisce mai

L’estate non finisce mai
La già annunciata “estate finita” non si vuol arrendere alle paventate aspettative. Alle fresche albe seguono repentini sbalzi di calore, quindi torridi meriggi agostani e cieli bianchi d’umide, stagnanti arie africane, anche se in bolla. Leggi tutto...

Nel dire che estate è stata, e non ancora finita, la definirei velata, ovattata, sudata, di poca vita anche se rumorosamente frastornante e scontata.
Ricordo ben altre estati, quelle vere, quelle delle albe fresche e cieli tersi, di un azzurro denso e profondo tanto da rapire i pensieri fino a confonderli e traghettarli nell’atmosfera dei sogni.
Il sole scaldava certo, ma era un calore che penetrava la pelle fino alle ossa.
Chiudevo gli occhi, contro quella palla di fuoco e vedevo una sorta di plasma denso, ondeggiante, di un colore rosso aranciato, che m’invadeva fino all’anima donandomi una sensazione di compiaciuta voluttà.
Era un gioco lasciarmi andare e tornare bambino o goccia di rugiada che si lascia dolcemente evaporare.
Nei meriggi assolati, nella campagna trevigiana, quand’eravamo piccoli ci volevano a dormire. Trascorrevo l’estate nella casa dei nonni, in mezzo ai campi, vicino al Piave, anzi “alla Piave”, come tutti chiamavano il fiume “sacro alla Patria”. Noi bambini legavamo le cavezze ad un piede del pesante letto di noce e ci calavamo dalla finestra, sul retro della casa, per dileguarci inosservati nei campi, sotto le viti a pergola, a saltar fossi o covoni di fieno, a rubare le pesche della “Maria Bedona” o a fare un tassello ai meloni per sentire se erano maturi. Più tardi, al risveglio degli zii, saremmo andati con loro a raccogliere il fieno già asciutto. Rifatti i covoni, scomposti dai nostri salti, non senza infastidite lamentazioni, ci facevano salire sopra il carro stracarico, affossati nel fieno caldo e profumato beandoci degli scossoni che ci facevano sobbalzare ad ogni buca.
Impolverati e sudati correvamo alla Piave per bagnarci e tuffarci nelle pozze d’acqua fresca abbandonate tra i pioppi dal ritiro della corrente. Ciottoli e sabbia a perdita d’occhio erano la nostra libertà. Il gioco consisteva nel lanciare i sassi piatti e rotondi fino a farli scivolare sulla superficie dell’acqua, controcorrente. Vinceva il sasso che faceva più salti. Umidi ed esausti tornavamo per cena, ci rinfrescavamo con sorsate d’acqua fredda alla fontana sull’aia. Ne avevamo da raccontare, a tavola, rispondendo alle domande indagatrici. Molto avevamo da nascondere, ci inventavamo fantasiose bugie a cui gli zii fingevano di credere. A volte zio Nanni tornava a casa imprecando con una bracciata di meloni, ancora crudi, guastati da tasselli prematuramente ritagliati sulla scorza ancora verde. Chi era stato non lo avrebbero mai saputo. Era uno spasso se scappava un maiale dallo stavolo, o rincorrere anatre e galline che razzolavano sull’aia. Quell’aia che, a giugno, ospitava la mietitrebbia. Era una festa! Arrivava da via. I vicini partecipavano alla raccolta delle spighe. Eravamo tutti in fermento. Per pranzo si allestiva una lunga tavolata, in fianco alla cantina, sotto le magnolie, vicino al rumore continuo della fontana. In tutti si poteva arrivare anche a trenta persone. Era bello ascoltare i racconti e le risate dei grandi, rincuorati da qualche bicchiere di raboso.
Raramente un’estate andava a male. Si temeva la tempesta sull’uva a compromettere il raccolto e intristire la vendemmia. Sotto le lunghe pergole, nell’umido sentore zuccherino di uve bianche e nere, si consumavano pomeriggi settembrini, immersi in tepori e profumi familiari, voci e racconti di adulti in libera uscita. La sera si assaggiava il mosto lassativo che saturava l’aria di cantina col suo denso profumo.
Anche adesso, a distanza di anni, è autunno, vendemmiano colline rivestite di viti come fosse moquette. Ma basse! Le vendemmiano con macchine apposite: le percuotono, scuotono, ne strappano grappoli da chilo e le lasciano ferite, senza una parola di conforto o di ringraziamento. Che sapore può avere quel vino strappato a forza, estorto e malamente calpestato. Tanta uva, tanto vino, questo solo conta. Tonnellate di grappoli devastati che odorano di petrolio, di trattore rumoroso nell’aria senza più voci.
Con la vendemmia finiva l’estate ed era scuola, grembiule nero e cartella di cartone ove riponevo l’astuccio coi nuovi pastelli, libro di lettura, sussidiario e una manciata di ricordi da ritrovare tra i quaderni, o nelle loro pagine, tutte le volte che riuscivo ad eludere numeri e parole sporchi d’inchiostro.

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